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Dipinti d'autore (nostalgia dei propri figli)

I granelli di sabbia, animati dal vento, giocano tra le dita dei miei piedi, rotolano e sfregano in un divertente eccitante micromassaggio.
Le mie palpebre chiuse non bastano all'accecante sole, bagliori rossastri denunciano la loro trasparenza.
Mi diverte farle vibrare impercettibilmente con ritmo lentissimo ed ammirare estasiato le opere d'arte che creo, complici i vasi sanguigni e le micromacchie oculari: Kandisky, Klimt, Mirò dipingono per me, eccellenti strumenti della mia inaspettata creatività.
I raggi del sole, incessanti piccole frecce roventi pronte a penetrarmi la pelle, quasi non li sento.
No, non è il vento che, incessante benefattore, rompe una ad una le piccole frecce di fuoco, è la mia mente, tanto occupata nel dipingere con gli occhi, che non si fa facilmente distogliere dall'artistico compito.


Solo, mi ritrovo solo con me stesso.
Quante volte durante la settimana ho desiderato questo momento.
Adesso sono solo, posso finalmente cominciare a pensare.
Ma non riesco, sono troppo occupato a dipingere, il vuoto virtuale creato nella mia mente adesso s'è riempito ad un tratto dell'artistica occupazione.
Rimane solo un piccolissimo spazio nel mio pensiero per pensare che dopo forse potrei pensare a qualcos'altro, qualcosa di costruttivo, qualcosa che mi dia la sufficiente ricarica per la prossima settimana di lavoro.
Ma adesso non posso.
Son fiero di non autoaccusarmi di pigrizia, in fondo sto creando.


Ma la fragorosa risacca, metronomo della mia mente, ad ogni suo fracasso mi dice che sono vivo, non inerme preda del sole o del vento, ma essere vivente di questo mondo.
Ad ogni suo fracasso socchiudo lievemente gli occhi, lo sguardo si fissa sulla candida schiuma quasi a siglare la mia e la sua veridica appartenenza alla realtà.
Poi la fragorosa onda si ritira ed io stendo la grezza tela delle mie palpebre, pronto ad un altro capolavoro.



​Ed è tra una tela e l'altra che il mio sguardo si ferma su due figure che passano davanti.
Due silhouettes in controluce sullo sfondo bianco della schiuma mi passano davanti; esse vengono dal nulla alla mia destra e con lento incedere, accarezzando con i piedi la sabbia bagnata, si dirigono verso il nulla alla mia sinistra.
Il mio palcoscenico visivo non è molto ampio, solo quei pochi gradi dovuti al piccolo spostamento delle mie pupille ma sufficienti a scorgere un giovane padre che, quasi arrestando i suoi passi flessuosi, con le dita della mano in guisa di pettine acconcia i capelli del figliolo, disordinati dal vento in una forma tanto selvaggia quanto bella.
Li acconcia quasi rimarcando il modello voluto dal vento, come suggerire al ragazzo che le naturali volontà, al contrario degli umani propositi, possono fare delle cose magnifiche, possono farci sorridere.
Un tenero sorriso si disegna sulle labbra del padre e del figlio, quindi riprendono il loro lento cammino verso il nulla alla mia sinistra.

 


Richiudo gli occhi, stavolta la risacca non mi ordina di riaprirli, anzi come una sinuosa danzatrice del ventre accompagna il volteggiare dei miei nuovi pensieri.
Anche sulle mie labbra tenta di disegnarsi un timido sorriso, ma ho posato i pennelli tanto alacremente usati prima, e un velo di tristezza mi ricopre…
Mi ricopre al punto da soccorrermi perfino dal vento e dai raggi del sole, ora più forti, robusto velo di tristezza!
Ricordo che tante volte alle mie piccole anch'io ho accarezzato i capelli.
Anche sulle nostre labbra c'era quello stesso sorriso.
Ma perché non lo ricordo perfettamente?
Perché un destino tanto vile ha beffardamente abraso quegli amabili disegni?


Socchiudo gli occhi e riprendo i pennelli, odo l'infaticabile metronomo, sono di nuovo pronto.
Ma i bagliori rossastri della tela sono scomparsi, anche dalla mia tavolozza sono scomparsi i colori.
E adesso come dipingo? 

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